Leonardo Da Vinci o Philippe Leroy: persone o personaggi?

Fulminacci, giovane cantautore romano, nel suo ultimo album Infinito +1 ha inserito una canzone dal titolo “Filippo Leroy”. Il ritornello dice: “Potrei essere Lello Da Vinci o Filippo Leroy”, in parole povere: posso essere la versione vera o l’attore che interpreta il personaggio.

Cosa possiamo trarre da questa canzone?

Essere e apparire: eterna lotta

Io sono un tipo particolarmente paranoico, estremamente un overthinker, e questa questione dell’essere o apparire mi dà molto su cui riflettere. Questo dubbio mi attanaglia da un po’ e non riesco a smettere di pensarci. Siamo attori che interpretano loro stessi?

Se guardiamo all’utilizzo dei social network, siamo Leonardo Da Vinci o Philippe Leroy? Siamo veri e spontanei o facciamo vedere quello che gli altri si aspettano da noi? Ma torniamo alla canzone di Fulminacci.

Io sono nato nel 1995 e Philippe Leroy non mi diceva assolutamente nulla prima di questa canzone, quindi mi sono documentato. Parliamo di un attore francese molto famoso in Italia, noto soprattutto per aver interpretato, in uno sceneggiato Rai del 1971, proprio Leonardo Da Vinci. Ecco che appare chiaro il ritornello sopra citato: siamo attori o personaggi? Siamo mera forma o anche sostanza?

La canzone di Fulminacci ha una costruzione quasi comica, dove il cantante dialoga con i cori che rappresentano, a mio avviso, le voci della società odierna. Ad esempio: il cantante dice “Mi lamento dal piano di sotto e nessuno mi sente” e i cori rispondono “non ci interessa”, ma anche “Per non pensare che tra un anno già mi dimenticheranno” con conseguente “è una promessa”.

Bastano queste due frasi per mettere in luce la condizione dell’artista: quel “facciamo festa” rappresenta l’essere ignorati, il non interesse per il “lamento”, per una condizione di difficoltà; segue la promessa di cadere nel dimenticatoio entro l’anno, come tutti i personaggi frutto di una fama causata dalla viralità; fama che cresce velocemente e altrettanto velocemente svanisce. Non siamo, forse, tutti un po’ artisti con la nostra vita sui social media? Non siamo quindi tutti soggetti a attenzioni fatue che velocemente spariranno?

Ma soprattutto: siamo voluti e apprezzati per la persona o per il personaggio?

Se non lo mostriamo non esiste (forse)

Rimaniamo su Fulminacci. Sempre nello stesso album troviamo “Tutto Inutile”, che letta (e ascoltata) insieme a “Filippo Leroy” ci dà conto della visione dell’artista moderno secondo il cantautore. Una frase mi ha colpito particolarmente:“fare il bravo non mi conviene, se poi ogni volta che ci provo nessuno vede”. Non ci basta essere persone, dobbiamo essere personaggi visti: non faccio “il bravo” perché voglio farlo, ma perché devo farlo vedere agli altri.

Sapete dov’è l’inghippo? È che spesse volte, se facciamo vedere chi siamo davvero, temiamo di perdere consenso, di perdere like, di perdere approvazione. Ergo, devo far vedere che sono “bravo”, non basta esserlo.

Così in un loop infinito di costruzione di una realtà artefatta: creata per mettere in bella mostra solo il lato bello, quello felice, senza difetti, condito con filtri e omissioni. Tante omissioni.

Proviamo ad astrarre rispetto alle persone. Vi è mai capitato di vedere un posto fighissimo su Instagram e una volta visto dal vivo rimanere delusi? A me è capitato spessissimo, entrambi i miei ex avevano un gran debole per i post instagrammabili che vedevano sui social. Arrivati lì, dal vivo, molti posti sono un’enorme delusione. Questo perché il contenuto su Instagram si concentrava solo su un aspetto di quel luogo, solo sull’aspetto bello.

L’omologazione: o sei uguale o sei fuori

I social ci spingono sempre di più all’omologazione: ci convinciamo che solo essendo omologati possiamo essere parte di un gruppo, solo essendo belli, ordinati e canonici possiamo piacere e ricevere approvazione. Sono il primo a essere vittima di questo gioco.

Come persone abbiamo il vizio di additare il diverso, ci viene naturale. Quindi, per quanto ci impegniamo e crediamo di essere diversi dalla massa, non siamo altro che omologati perché, sotto sotto, temiamo di essere etichettati come diversi. Sui social è facile notare questa omologazione: tutti la storia post crossfit, tutti la storia in discoteca con il cocktail in mano, e che fai, la foto dello spritz al tramonto non la pubblichi? E quando finalmente sei andato in quel posto instagrammabile, che fai? Non lo fai vedere a tutti che eri lì?

Lo hai fatto perché volevi farlo o perché volevi farlo vedere?

Rimane però un interrogativo: cosa me ne faccio dei like per cui tanto mi sono speso per guadagnarli? Uso i social per lavoro, e i like vengono definiti metriche della vanità, perché sono metriche vuote che da sole non significano nulla per un business. Penso valga la stessa cosa per le persone: 100, 400 o 900 like sono altro oltre la vanità? Siamo altro oltre i social, siamo altro oltre quel faro puntato solo sul dettaglio bello e apprezzabile. C’è altro in quel nero che il faro non illumina: sotto il faro c’è Philip Leroy, oltre c’è Leonardo Da Vinci.

Conclusioni

Quindi dove voglio arrivare con tutta questa (spero non noiosa) filippica? Io temo che oggi il mondo, spinto dai social media, vada verso la direzione per cui tutti interpretiamo online dei personaggi che spesso sono lontani dalle persone reali. Peccato che poi fuori da queste piattaforme quei personaggi non esistano.

I social sono uno strumento utile, non è il male assoluto utilizzarli per raccontarsi. Però, perché veicolare un personaggio e non la persona? Abbiamo paura che, mostrando i veri noi stessi, siamo meno voluti e apprezzati. Ma quei like al personaggio non sono like alla persona, sono consensi che restano sui social e che non corrispondono a nulla nella vita reale. Esistiamo nei social o anche nella vita reale?

5 commenti

  1. Concordo pienamente con quanto dici e, la chiave di tutto, credo sia proprio nell’incrocio tra:
    – il sentirsi di dover sembrare perfetti in ogni cosa perché, come siamo, non andiamo bene;
    – e la paura di “e se mi mostro per quello che sono e scoprono che non valgo nulla?”

    Io stesso, come te, ne sono “vittima”, ma poi sono il primo che quando segue altri professionist* vuole vedere i “difetti”, le “imperfezioni” altrimenti so benissimo che non mi stai dicendo tutto.

    Bellissima riflessione 🙂

  2. Bellissima tematica e sempre attuale.
    Avere un armadio pieno di “maschere” ci fa sentire più sicuri e pronti a qualsiasi evenienza ci presenti la vita. Ma quanto davvero sarà utile? Alla lunga più diventare pericoloso? Recitiamo talmente bene a volte che corriamo il rischio di dimenticare da dove siamo partiti. Adoriamo recitare e semplificare per rendere tutto più morbido e fluido ma con un importante rovescio della medaglia: dimentichiamo chi siamo realmente.

      • Ci riprovo.

        Che io sappia il primo ad avventurarsi in un dibattito su apparenza vs sostanza (si possono sintetizzare così le tue riflessioni) è stato il buon Platone quando scagliava i suoi strali contro i retori, rei di sfruttare il talento dell’oratoria per ottenere il consenso pubblico, senza badarsi minimamente della verità di quanto argomentavano (l’aleteia). Venendo ai giorni nostri le considerazioni che fai sul piano individuale (apparenza sui social contro vita reale) possono essere estese a quello pubblico e addirittura politico (consenso vs Politica con la P maiuscola).

        La mia considerazione è banale: si diventa schiavi dei social, dell’omologazione sociale, della facilità del pensiero quando si ha paura di essere in minoranza (o addirittura in isolamento), ritenendo questa una condizione scomoda, pregiudizievole, insicura. La scuola (sing) invece che indottrinare vanamente (e fornire mera forza lavoro) dovrebbe insegnare la capacità di giudizio. Solo chi è sicuro delle proprie competenze critiche può affrontare la massa fregandosene di stigmi, influenze e like/dislike.

        Da qui si limiterebbero molti guai sociali dettati dall’insicurezza, dalla poca autostima, dalla paura di essere giudicati dagli altri.

        E si creerebbero futuri cittadini e non semplici utenti/clienti.

        (So di aver tagliato con l’accetta i ragionamenti e banalizzato molto)

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