Ho una certa intolleranza nei confronti dell’omologazione, del pensiero unico, delle cose piatte, eppure se mi guardo intorno, sento quasi che l’omologazione imperi un po’ ovunque. Questo blog nasce proprio per rompere l’omologazione perché, a mio avviso, siamo di fronte a quello che ho chiamato “Fordismo Digitale”. I social, anche qui, hanno il loro ruolo.
Ma cos’è il Fordismo Digitale?
Partiamo con il ricordare brevemente cos’è il fordismo: con questo termine facciamo riferimento a quel modello produttivo che ha caratterizzato l’industria nel primo ‘900. Modello fondamentale per lo sviluppo economico degli anni successivi e per la motorizzazione di massa. Produrre automobili in serie e tutte uguali permetteva di abbattere l’incidenza dei costi fissi, garantendo una riduzione del costo totale della produzione e quindi del prezzo al consumatore.
Vi starete giustamente chiedendo: ma cosa c’entrano i social? La connessione è presto fatta. Provate a pensare a quello che era l’output dell’impresa fordista: macchine indifferenziate. Ora con la mente proviamo a pensare alla home di Facebook o di Instagram nei giorni in cui Giorgia Meloni, con un post su Facebook, mette fine alla relazione con Andrea Giambruno.
Abbiamo molto ironizzato sulla questione “pietra che rimane pietra e goccia che rimane acqua”. Anche le aziende hanno fatto post ironici sulla vicenda per cavalcarla. Questo è quello che viene definito Real Time Marketing, una tecnica di marketing in cui un’azienda, con tempestività, pubblica sui social un contenuto ironico su un fatto accaduto che gode di risonanza mediatica.
Su questa attività ci sono agenzie e aziende che hanno fatto scuola, rendendo questo stile di comunicazione il loro vantaggio competitivo. Ma questo stile è davvero adatto a tutti i brand? A mio avviso, no.
Prendiamo un altro evento di enorme risonanza: la morte della Regina Elisabetta II. Come personaggio super pop e protagonista indiscussa della storia contemporanea, la sua morte ha monopolizzato i social. C’è chi è stato super veloce nel pubblicare il suo post, in linea con la solita Social Media Strategy. Ma se ci guardavamo intorno, le home dei social erano piene di post fotocopia con battute su Regina Elisabetta, Carlo, Camilla, William, Kate e la famiglia reale.
Se nell’impresa fordista avevamo macchine in serie, nel Real Time Marketing abbiamo post in serie. Sanremo, Chiara Ferragni con la stola “Sentiti Libera“, quante aziende hanno usato questa base meme cambiando la frase della stola? Tantissime. Per carità, fa ridere, ma il brand dov’è? La differenziazione? Nessuna. Se si scorre la home di un social vedendo mille post uguali sulla Ferragni, è probabile che non si faccia nemmeno caso al brand che ha condiviso il post.
La Schiavitù degli Algoritmi
Nella comunicazione odierna, siamo oggettivamente schiavi degli algoritmi delle piattaforme che utilizziamo per comunicare. Siamo costretti a pensare a contenuti che, oltre a piacere alla nostra target audience, piacciano anche all’algoritmo. Questo cosa provoca? A mio avviso, porta a snaturare la comunicazione, facendoci seguire tendenze in maniera acritica, senza chiederci se le interazioni che generiamo sui social siano in target o meno.
Su 1000 like e una reach di 10.000 utenti, quanti sono in target? L’attività di comunicazione deve essere orientata alla conversione, non alle vanity metrics. Certo, anche se intercetto utenti non in target, in qualche modo lavoro sull’awareness e genero passaparola, ma nel concreto: questa strategia funziona per tutti? Nel marketing o, in generale, nelle scienze economiche, non funziona la passiva replicazione di una strategia.
Un altro punto interessante è vedere come alcune aziende facciano un uso smodato di una comunicazione ironica, dissacrante e, in generale, disruptive sui social. Cosa che non avviene, ad esempio, in tv o in radio. Certo, mezzi diversi hanno pubblici diversi e richiedono un adattamento del messaggio, ma qui non parliamo di semplice adattamento: stiamo parlando di veicolare un’immagine del brand diversa su canali diversi. Ma soprattutto, in un contesto omnicanale come il nostro, dove lo spettatore che guarda la tv è lo stesso che ti segue sui social, questo può generare confusione.
Io mi chiedo: chi è il brand? È solo quello che vuole trasmettere un senso di familiarità? Se lo vedo in tv sì. È solo quello che vuole farmi ridere con cinismo? Se lo vedo su Instagram, certo. Potrebbero convivere queste due anime, ma questo dovrebbe emergere su ogni canale.
E su LinkedIn invece?
Dato che utilizzo molto LinkedIn, non posso non fare un focus su questo social. La situazione è differente? Spoiler: no! Cambia semplicemente il soggetto emittente, ma non la sostanza. Sappiamo bene che, se vogliamo farci notare e essere percepiti come autorevoli e competenti, dobbiamo pubblicare contenuti di qualità e interagire con i nostri “simili”.
Prendiamo come esempio l’8 marzo: LinkedIn esplode di contenuti fotocopia, con veramente pochi elementi originali. Mi sorge spontanea una domanda: pubblicare un contenuto fotocopia in un giorno di affollamento, ha davvero un impatto sul nostro personal branding? Temo di no, ma sono pronto a ricredermi.
Ammetto candidamente che anche a me capita di cadere in questo gioco di rincorsa alla tendenza. LinkedIn sta facendo una sorta di virata verso la “modalità gattini”, il che mi preoccupa un po’. Mi lascia sempre un po’ stranito come si riesca a prendere una scena di vita quotidiana e trasformarla in un insegnamento filosofeggiante, tipo: una busta sospinta dal vento che ci insegna quanto il mercato cambi rapidamente (invento). Brividi.
Quindi, al netto di tutto?
A volte, nella smania di inseguire le tendenze, la comunicazione diventa pura omologazione. Se troviamo qualcosa che funziona, lo replichiamo pur di intercettare il like facile. Questo comportamento sta spegnendo lo spirito critico (e creativo) di chi, nel marketing, ne fa una professione.
È come se fossimo di fronte a un Fordismo 2.0 replicato nell’ambiente digitale: post fotocopia con poca personalizzazione. Questa è una riflessione che coinvolge anche me. L’omologazione ci rende poco reattivi, poco creativi e spersonalizzati.