Il potere della condivisione: quando la fragilità diventa virale

Ho fatto la mia prima vacanza da solo, e voi giustamente direte: e ci scrivi un articolo sopra? Sì e no. Dopo questi tre giorni in solitaria, ho deciso di condividere sui social questa esperienza, nella speranza che potesse essere di aiuto a qualcuno che, come me, deve fare i conti con la paura della solitudine. Bene, il post è diventato virale. Seguitemi, che vi spiego meglio.

La paura della solitudine

Per darvi un po’ di contesto, necessario a comprendere il tutto, devo prenderla un po’ alla larga. Circa tre anni fa ho iniziato un percorso di psicoterapia: avevo troppe cose in testa e dovevo mettere un po’ di ordine. Dopo circa un annetto mi si è parata di fronte una verità: avevo paura della solitudine. Io di questo non me ne ero mai accorto, eppure era là e soprattutto era evidente.

Mesi prima di questa fantasmagorica scoperta, un ragazzo mi aveva raccontato di come, spesso, si ritrovasse ad andare in vacanza da solo. Io ero ammirato da questa affermazione, volevo anche io fare questa esperienza. Ma la mia paura della solitudine era lì nell’angolo a fissarmi. Mi teneva legato e mi impediva di montare su un treno e partire da solo.

Ho proseguito il mio percorso di terapia fino a che non mi sono sentito pronto, avevo metabolizzato la mia paura, avevo messo in ordine molte cose nella mia testa. Ho prenotato un viaggio per Verona e due notti in albergo.

Il post della vacanza condiviso sui social

Spesso in questo blog mi sono lanciato in invettive contro i social media: in particolare verso chi condivide una finta vita patinata e verso l’effetto che questi network hanno sul non sentirsi abbastanza. Ultimamente cerco di utilizzare i miei profili per scardinare un po’ queste logiche e per parlare con autenticità delle mie fragilità, questioni comuni a molti e non solo a me.

Allo stesso modo, finita la vacanza, ho pubblicato una mia foto in Piazza San Marco a Venezia; su Instagram il post aveva questo testo: “Sono da solo” ho detto entrando in un ristorante. Ecco, sentirmelo dire mi ha fatto effetto. Ho fatto la mia prima vacanza da solo. Direte “A me che cazzo me ne frega a me” (cit). Lecito, però come al solito mi piace condividere nella speranza di essere utile a qualcuno.

Quando in psicoterapia ho scoperto di avere paura della solitudine, ero sorpreso. Eppure era una cosa sempre stata lì, non me ne ero mai accorto. Quando ho sentito qualcuno dire “sono andato in vacanza da solo”, ero ammirato. Volevo farlo, ma avevo paura della solitudine che comportava. Ho messo questa mia voglia da parte.

Dopo quasi tre anni di psicoterapia mi sono sentito pronto. Ho prenotato. Ho fatto la mia prima vacanza da solo. “Sono da solo” ho detto entrando in un’osteria ignorantissima. Il fato ha voluto ci fossero anche i tavoli condivisi. Ero l’unico solo. Il cellulare non prendeva. Giusto per mettermi alla prova.

Spesso siamo portati ad associare “Solo = Sfigato” oppure “Solo = Non meritevole di compagnia”. Un’equazione brutale che, almeno io, mi porto dietro da sempre. Il problema della solitudine era un mio giudizio su me stesso. Un giudizio duro da scardinare. A passare tre giorni da solo ci sono arrivato con calma, passando dagli aperitivi, al cinema, alle giornate in solitaria a un paio d’ore d’auto da Pisa.

Che poi inconsciamente, come meta per la mia prima vacanza da solo, ho scelto Verona: città delle coppie per eccellenza (anche se le foto sono a Venezia, alloggiavo a Verona). La cosa ha un che di comico. È stato bello. Ero solo ma non mi sono sentito solo. È stata una bella prova con me stesso. Camminavo da solo ed ero contento, mangiavo solo ed ero contento. Bevevo da solo ed ero contento (vabbè, qui era facile).

Sarà la prima di una lunga serie. Fanculo giudizi e pregiudizi. Fanculo le convinzioni sbagliate”.

Lo stesso post, con un testo abbreviato, l’ho condiviso su Threads. Entrambi i post sono andati virali. Com’è possibile? In un mondo fintamente perfetto, vanno virali le fragilità?

La fragilità autentica che diventa virale

Mentre scrivo, il post di Instagram ha più di 2mila like e circa 100 commenti, mentre per quello su Threads i like sono più di 21mila e quasi 1.400 commenti. Ma non sono questi numeri a essere sorprendenti, bensì il contenuto dei commenti e dei messaggi che ho ricevuto.

I miei profili sono stati inondati da persone che mi ringraziavano per aver condiviso quel post, per aver parlato di vacanze da soli, di paura della solitudine e di psicoterapia. Chi si limitava a dire “grazie” oppure “bravo”, e chi invece ha raccontato la sua esperienza, le sue paure e difficoltà legate al tema.

Non sono riuscito a leggere tutto tra commenti e messaggi, ma alcune frasi mi hanno colpito: una ragazza mi ha raccontato che, oltre alla paura della vacanza da sola, aveva paura di guidare all’estero. Allora ha scelto di andare a Vienna e di affittare una decappottabile. Io mi sono immaginato lei che con i capelli al vento vinceva le sue paure. Straordinario. 

Un’altra invece ha scritto “è confortante e incoraggiante vedere che anche altre persone condividono questi blocchi e queste ansie”. Oppure “anche fare una passeggiata o prendere un caffè al bar da sola, mi sento a disagio, vorrei nascondermi e non farmi vedere”, e prosegue “mi rendo conto di quanto tutto questo ci condizioni”; e come questi commenti, tantissimi altri.

Ma da alcuni ho capito perché questi post sono andati virali. In un commento ho letto: “Ho vissuto ogni parola che hai scritto”, poi “sembra lo abbia scritto io, non potevi dirlo meglio”. Anche un semplice “ti ammiro, anche io vivo la paura della solitudine e ho sempre pensato che stare soli significasse essere sfigati”.

Ecco il punto: le persone si sono identificate in quello che ho scritto. Ho messo nero su bianco un qualcosa di reale, qualcosa che fa male, qualcosa che spesso sui social non trova spazio perché non sufficientemente patinato. Ho messo sulla piazza virtuale, senza paura, la mia fragilità: fragilità che però non è solo mia, ma è di tanti e a cui spesso nessuno dà voce. Perché troppo impegnati a raccontare le nostre (finte) fantastiche vite sui social.

Conclusioni

Un commento mi ha fatto commuovere: “Se anche una sola persona, leggendo questo post e vedendo che tu ce l’hai fatta, sarà incoraggiata a iniziare il percorso che la porterà ad affrontare e superare la sua paura, il valore che hai dato è incalcolabile”. In questo commento è riassunto il perché ho condiviso quel post, il perché mi sono messo a nudo davanti a tutti.

Quindi al netto di tutto, cosa ho capito? Sui social media esiste spazio per una narrazione alternativa, uno spazio oltre i finti personaggi, uno spazio in cui essere persone vere. Nel marketing ti viene spiegato che per emergere devi distinguerti: in questo caso la mia distinzione è stata la fragilità, e questa fragilità è stata travolta da una valanga di empatia.

In un mondo artefatto e patinato, la paura, l’autenticità e la fragilità diventano virali. Succede perché nessuno se lo aspetta.

2 commenti

  1. Io ho conosciuto la mia fragilità con la separazione che si è portata dietro l’allontanamento dalla mia famiglia e dalla mia cerchia di amicizie… un anno totalmente sola… sapevo di aver paura della solitudine infatti in un primo momento mi ha schiacciata, nn uscivo, nn parlavo con nessuno ( sono restauratrice, anche il mio lavoro mi fa stare bella solitudine) anche la luce mi dava fastidio… la svolta è avvenuta quando ho preso questo demone, l’ho guardato e gli ho dato un nome, l’ho capito e ho iniziato a pensare che potevo chiamarlo in altro modo se ” solitudine” nn mi piaceva… ora si chiama “liberta” ed è bellissimo! ❤️

  2. Ho fatto tanti viaggi da solo. E non mi son mai sentito solo.
    La solitudine l’ho provata nei pub del centro in uscite serali con amici che parlavano di calcio.
    La solitudine l’ho provata a casa mia aspettando una chiamata che non arrivava, o nei minuti successivi a quando lui andava via.
    Ma nei viaggi non si è soli… mai.

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