La Transizione Ecologica è una questione di vitale importanza, con cui necessariamente dobbiamo fare i conti. Però, se guardiamo attorno, sembra che le forze politiche che hanno a cuore la questione ambientale non siano quelle che vincono le elezioni. Anzi, registriamo una crescita di quelli che ritengono che la Transizione Ecologica non serva. Ma come mai?
Il Fast Fashion e il suo dilemma
Per esaminare la questione, vorrei fare un passo indietro. Tempo fa mi sono imbattuto in un podcast dove partecipava il giornalista Francesco Oggiano. Il podcast in questione è Altrochè di Chora Media con Altroconsumo. Nel discorrere dei podcaster, il Fast Fashion veniva analizzato solo considerando la questione della sostenibilità.
Il Fast Fashion ha democratizzato la moda, abbassato il costo dei capi e reso l’abbigliamento più accessibile a tutti. Ha però portato all’estremo il consumismo dei capi: vestiti di bassa qualità che vengono rapidamente buttati via. Questo genera enormi costi ambientali, sia nella produzione che nello smaltimento dei rifiuti.
Una volta su LinkedIn ho sentito parlare di “cost per wear”, ovvero il costo di un capo per ogni utilizzo. Ovviamente, questo costo è più elevato nel caso del Fast Fashion, dato che i capi hanno una minore durevolezza nel tempo. Questo ci fa capire una cosa: il capo del Fast Fashion lo pago meno, ma lo indosso meno volte, quindi ha un cost per wear molto più alto rispetto a un capo che pago di più, ma che è più durevole.
Fatte queste premesse, possiamo proseguire.
Il consumo è un fenomeno complesso
Leggendo gli articoli di questo blog, avrete sicuramente capito quanto io sia puntiglioso, e lo sono in particolare sulle cose di cui so di avere una buona conoscenza. Durante il mio percorso universitario ho studiato Analisi del Comportamento del Consumatore, ma anche Sociologia dei Consumi e Storia dei Consumi. Questo per dire che sul consumo parlo con cognizione di causa.
Ho studiato come il consumo di un bene non sia razionale, ma anche come non sia dettato solo da scelte economiche. Nel caso dell’abbigliamento, dobbiamo considerare concetti quali l’espressione di sé e l’utilizzo come segnalazione di appartenenza a un gruppo. Cosa vuol dire? Io utilizzo un capo di abbigliamento per mostrare chi sono, quindi lo uso in funzione comunicativa. Allo stesso modo, posso utilizzare un capo per dimostrare appartenenza a una certa cultura, perché gli appartenenti a quella stessa cultura indossano quel capo.
Quindi, non possiamo sviscerare le questioni legate al Fast Fashion limitandoci alla sostenibilità, perché il consumatore non acquista solo per questioni valoriali, come appunto il rispetto dell’ambiente.
Prendo me come esempio: vengo da una famiglia con reddito medio-basso. Quando ero piccolo, eravamo in quattro persone con un solo stipendio. Risulta facile comprendere che c’erano poche alternative al Fast Fashion se volevamo vestirci. Non era una scelta, ma un’esigenza.
In un’Italia con salari bassi che non crescono, il Fast Fashion rappresenta un accesso all’abbigliamento che in passato sarebbe stato molto limitato. La sostenibilità, per chi deve scegliere se mangiare o spendere per un capo, non è rilevante nel processo d’acquisto. Ma questo non esaurisce le casistiche.
Il consumo sostenibile dei radical chic
Un individuo che vuole sfoggiare un guardaroba vario ha come obiettivo la sostenibilità? Probabilmente no: il driver di acquisto è un altro. La Generazione Z è sicuramente più sensibile al tema della sostenibilità: ma lo sono tutti? Quanto pesano sul mercato totale? Per molte persone vale di più apparire sempre con capi diversi o risparmiare, piuttosto che preoccuparsi della sostenibilità del capo. Il dibattito è complesso e non ha facile soluzione.
Ascoltando quel podcast di cui vi parlavo inizialmente, ho avuto un mancamento. Ho scritto a Francesco Oggiano, facendo notare che la trattazione era sommaria e limitante e che, direi oggettivamente, era un dibattito tra radical chic (parola che odio ma qui calzante) che parlavano da persone con il culo al caldo.
Il rischio è quello di analizzare il fenomeno da un solo punto di vista, quello di chi è sensibile alla tematica ambientale, di chi conosce bene la questione, dimenticando che noi non siamo il mercato e che il consumatore e le sue scelte sono molto più complesse di come le presentiamo.
La Transizione Ecologica
L’ho presa alla larga, ma ci siamo arrivati. Se ascoltiamo i telegiornali, sembra che la questione ambientale sia di grande rilevanza, un’urgenza per la quale siamo tremendamente in ritardo. Io su questa visione delle cose non posso che essere d’accordo: queste cose ce le dice la scienza.
Allora perché i movimenti che mettono in dubbio che il cambiamento climatico sia reale vincono le elezioni e sono in crescita nei consensi? Basta guardare alla vittoria di Donald Trump nelle presidenziali USA appena trascorse.
A suggerirci la risposta sono proprio le elezioni presidenziali citate. Ahimé, ho dimenticato dove l’ho letto, ma venivano messi a confronto i temi della campagna elettorale dei Democratici, quelli dei Repubblicani e i problemi percepiti dal cittadino medio americano. La Transizione Ecologica, tema caro alla sinistra, era agli ultimi posti.
Ora, il progressista medio urlerebbe al sacrilegio. Ma a un operaio, interessa di più la Transizione Ecologica o mettere un piatto in tavola? Gli interessa di più l’energia green o arrivare a fine mese? Gli interessa di più un sistema sanitario funzionante o l’eliminazione delle auto diesel?
Non fraintendetemi: io ritengo la Transizione Ecologica fondamentale e sono spaventato dagli effetti dei cambiamenti climatici. Però, per i ceti popolari con stipendi sempre più bassi in contesto economico sempre più instabile, con una globalizzazione che non li fa sentire sicuri, in un mondo nuovo fatto di capitali accentrati sempre di più nelle mani di pochi, la transizione ecologica non è, e non sarà, una priorità.
Conclusioni
Qualcuno di voi penserà: “Eh, voglio vedere quando queste persone subiranno le conseguenze del surriscaldamento globale, cosa penseranno”. Concordo anche qui. Resta però una questione: le persone vedono le conseguenze del cambiamento climatico come lontane, mentre il loro stipendio basso, che non cresce, lo vedono ogni giorno.