Diet Culture: quando la divulgazione tramite social può fare danni

Anche solo scorrendo brevemente gli articoli di questo blog, avrete capito che il tema dei social media mi è particolarmente caro. Questi contenitori non sono solo un calderone di meme e post divertenti: spesso ci sono dei profili che fanno divulgazione su svariati argomenti, come scienza, politica, nutrizione, sport e via discorrendo.

Oggi voglio soffermarmi su chi fa divulgazione in merito alla nutrizione: ritengo che questo sia un ambito particolarmente delicato, nonché particolarmente pericoloso.

Cos’è la Diet Culture

Il settore del wellness, ovvero dello stare bene a 360 gradi, negli ultimi anni ha visto una crescente attenzione e un conseguente crescita del mercato. Del wellness fa parte tutta la sfera relativa alla nutrizione, ergo dietologi e nutrizionisti sono diventati figure sempre più centrali in un contesto dove essere magri, belli e performanti è considerato sempre più importante.

Qui entra in gioco il concetto di diet culture. La definizione la prendo in prestito dal sito del Centro Disturbi del Comportamento Alimentare: “Il termine ‘diet culture’, ovvero cultura della dieta, descrive un sistema di convinzioni che valorizza i corpi magri o tonici rispetto ad altri tipi di corpo e che collega il peso e le dimensioni del corpo alla salute e allo status sociale”.

Sul sito possiamo poi rintracciare alcune caratteristiche peculiari di questo tipo di cultura. Questo approccio al cibo e a tutto ciò che gli ruota attorno non può che generare in alcune persone ansia e stress e, di conseguenza, emozioni negative. Senza dimenticare il senso di colpa o la vergogna che possono derivare dal sentirsi giudicati per le proprie scelte alimentari. Ne consegue che lo stesso approccio può incentivare comportamenti poco sani nei confronti del cibo, dell’attività fisica e di tutto ciò che riguarda questi ambiti.

Infine, una delle caratteristiche fondamentali su cui soffermarsi è che la diet culture porta a bollare aprioristicamente i cibi come “buoni” o “cattivi”. Questo porta a rapportarsi all’alimentazione con una certa rigidità, cosa che di naturale e sano non ha nulla.

I social media e la diet culture

Sono tantissimi i professionisti che sui social consigliano ricette fit (vere o presunte), sfatano miti e danno consigli. Spesso però mi è capitato di guardare contenuti e trovare opinioni contrastanti e contraddittorie. L’alimentazione non è forse una scienza? Non dovrebbe esserci, almeno sulla carta, unanimità di approccio su alcune cose?

Mi sono imbattuto in profili con tantissimi follower e moltissime interazioni, dove ho visto contenuti che, riportandoli con alcune semplificazioni, dicevano che:

  • le bevande vegetali sostitutive del latte sono il male assoluto;
  • la pasta andrebbe mangiata solo nei giorni di festa;
  • le bevande con aspartame (un dolcificante) sono tutte assolutamente da evitare;
  • zucca e carote non vanno consumate perché contengono troppo zucchero.

Ora, basta leggere queste assurdità per comprendere facilmente che connessione hanno i social media e la divulgazione con la diet culture. Questo tipo di professionisti non fa altro che creare terrorismo psicologico, rendendo ancora più complesso il rapporto con il cibo per chi li segue e si fida delle castronerie che vengono dette.

Combattere la diet culture

I social, essendo niente più che uno specchio della società, non sono composti solo da individui di dubbia competenza, ma anche da veri professionisti che cercano di fare corretta informazione.

Su Instagram seguo la Dott.ssa Giulia Biondi, con il suo profilo Bilanciamo. La dottoressa ha anche scritto vari libri per Newton Compton Editori Srl. La sua comunicazione è quasi all’opposto rispetto a quella della media degli altri suoi colleghi: è molto meno orientata alla privazione di alimenti e più verso un “possiamo mangiare tutto, se conosciamo il cibo e le quantità da consumare”.

In altri profili che fanno sana divulgazione, ho visto come la pasta si possa consumare giornalmente nella giusta quantità e che l’aspartame nelle bibite, per creare problemi, debba essere assunto in quantità giornaliere esageratissime.

Un altro profilo interessante è Theia, che segue il leitmotiv della Dott.ssa Biondi: sfatare i miti della diet culture. In entrambi i profili si fa spesso riferimento alle Linee Guida della sana alimentazione” del Ministero della Salute, frutto di evidenze scientifiche, ed è a queste a cui dovremmo rifarci per la nostra alimentazione.

Non è mio obiettivo sfatare i miti di questa cultura malata del cibo, non ne ho le competenze e non è questo il focus. Quindi, qual è il punto?

Democratizzazione dell’informazione

Internet, con la nascita dei blog prima e dei social media poi, ha democratizzato l’informazione. Ovvero, se in passato le fonti emittenti erano poche e sottoposte a un certo controllo del messaggio veicolato (si pensi a radio, TV, giornali e in generale ai media non digitali), l’avvento del digitale ha cambiato le carte in tavola.

Oggi, per dire la propria e veicolare un messaggio, basta uno smartphone e una connessione Internet. Questo implica dare voce a chiunque, senza che ci sia in qualche modo una verifica dell’informazione veicolata.

Non vuol dire che in passato tutte le informazioni rese al pubblico fossero corrette, ma se a parlare era un giornalista che doveva riferire a un editore o a un direttore, c’era una qualche forma di controllo che oggi viene meno in molti contesti.

Come sta succedendo mentre leggete questo articolo, io rispondo a me stesso per quanto scrivo (salvo ovviamente questioni di rilevanza giuridica): non c’è nessuno che verifica ciò che pubblico. La veridicità e la validità di quanto state leggendo spetta solo a voi lettori.

Un utente che ascolta certe castronerie potrebbe crederci acriticamente perché a dirle è un nutrizionista. E quindi, ad esempio, smettere di consumare pasta. Questo è un esempio banalissimo, ma può essere esteso a tanti settori e agli argomenti più disparati. Pensate a quanti comportamenti sbagliati potrebbe provocare anche un banalissimo reel.

Un creator dovrebbe avere contezza della potenza dello strumento che ha in mano: i social non sono solo un modo per farsi conoscere e fare più fatturato, ma sono uno strumento che amplifica la diffusione delle informazioni. E quando il contenuto è amplificato, non conta più se le informazioni siano vere o meno. A ricevere attenzione è sia chi, come la Dott.ssa Giulia Biondi e Theia, fa divulgazione basata su dati scientifici, sia il cialtrone che spara cose quasi a caso.

Conclusioni

Qual è la soluzione? Bella domanda. Non mi viene in mente assolutamente nulla. Non sono contro la democratizzazione dell’informazione: altrimenti non sarei nemmeno qui a scrivere. Però non possiamo far finta di nulla e ignorare le storture create da questa condizione.

Esiste una questione da non trascurare: quando ci informiamo online dobbiamo sempre fare attenzione alla fonte. Se io parlo di alimentazione in maniera tecnica e approfondita, non sarò certo puntale e attendibile come chi ha un titolo di studio verticale in merito. Sono più attendibile se parlo di comunicazione o economia.

Per cui, una buona prassi è quella di non ascoltare acriticamente tutti, ma di informarci sulla fonte e dargli i giusti crediti con cui pesare le informazioni veicolate. Però forse, più che una soluzione, io ho una speranza: che i cialtroni vengano almeno bilanciati da chi invece si impegna a fare informazione vera, di qualità, con l’obiettivo di fare bene alle persone.

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