Si è da poco concluso il 75esimo Festival di Sanremo, onestamente di canzoni me ne sono piaciute poche. Ma non è di questo di cui vi voglio parlare. Quando sono stati annunciati i cantanti in gara, ho letto “Lucio Corsi”. Ho subito pensato: “Chi cazzo è Lucio Corsi?”, ho chiesto a un’amica che mi ha risposto “è un cantante di nicchia”. Ho poi letto il titolo della canzone: “Volevo essere un duro”. Il titolo parla da solo, è esplicativo, arriva subito. A me è arrivato immensamente: anche io volevo essere un duro.
Quello che la società si aspetta
Per chi legge le pagine di questo blog, quanto sto per dire non suonerà assolutamente come nuovo. Ho spesso parlato di come la società tende a creare categorizzazioni che hanno come fine ultimo l’omologazione. La faccio semplice? Ci sono i giochi per bambini e ci sono i giochi per bambine. L’uomo è rude, duro e non prova sentimenti; la donna, invece, è sensibile, dolce e sottomessa. Ho già parlato di come tutto questo sia riconducibile alla visione patriarcale della società e dei ruoli di genere.
Suppongo che in tanti abbiano dovuto fare i conti con queste aspettative. Vi porto la mia esperienza, come semplificazione di una storia che accomuna tutti. Quando ero piccolo, tutta la società intorno pretendeva che i bambini fossero fatti con lo stampino: amanti del calcio, amanti del rischio, amanti del pericolo, poco sensibili, poco emotivi, scapestrati e senza troppo “fronzoli”. Ecco, io ero proprio l’esatto contrario.
Ero un bambino sensibile, niente sport, a me piaceva il teatro. Tutti volevano fare i calciatori, io sognavo di diventare un ballerino (spoiler: non è successo). Ero un bambino sensibile, ansioso, pieno di paranoie. Mi guardavo attorno e mi sentivo fuori luogo. La cosa si è molto acuita quando ho iniziato a frequentare le scuole superiori. Gli adolescenti, 15 anni fa, non erano particolarmente simpatici. Mi dicono che oggi le cose paiono essere cambiate.
Finocchio, sensibile e secchione
Ho dei ricordi molto nitidi dei cinque anni delle scuole superiori. Non andavo molto d’accordo con i miei compagni di classe. Non so se, per mia sensazione o per verità, mi sentivo guardato diversamente: ero un po’ effemminato, non incarnavo lo stereotipo del maschio adolescente che invece era incarnato da quasi tutti i miei compagni di classe.
Quello che riporto non ha certo valenza statistica e non vuole essere rappresentativo di una società. Ricordo, però, che era quasi scontato che quelle ad andare bene a scuola fossero le ragazze, mentre i ragazzi erano quelli svogliati. Le ragazze erano quelle calme e pacate, i ragazzi quelli che facevano casino. Io ero un chiacchierone, ma studiavo, stavo attento durante le ore di lezione, avevo buoni voti, andavo molto d’accordo con i professori. Ecco appunto, con i professori: molto meno con i miei compagni di scuola maschi.
Io non fumavo, non mi facevo le canne, non saltavo un giorno di scuola, non partecipavo a scioperi improvvisati. Facevo tutti i compiti, ero sempre preparato per le interrogazioni. Riassumendo: io non ero un duro. I duri erano quelli che facevano i bulletti, quelli che facevano i provoloni con le ragazze, quelli che entravano in classe con gli occhiali da sole lasciando una scia di puzza di fumo che penetrava le narici. Io per tutti ero uno sfigato.
Anche io “Volevo essere un duro”
Niente, io guardavo questi “duri” e volevo tanto essere come loro, volevo troppo essere un duro per non essere preso in giro. Io non volevo essere uno sfigato. Io non volevo essere additato come quel finocchio sensibile che ero. Ma non ci riuscivo, non ne ero assolutamente in grado. Poi le superiori sono finite, sono andato all’università. Un mondo nuovo, persone nuove. Non volevo più essere un duro, volevo solo essere me stesso, la mia sensibilità andava bene.
Ma come mai è successo questo? Semplicemente ho cambiato contesto. Ero dentro un ambiente che era molto meno rigido rispetto a questa distinzione tra “duri” e “sfigati”, un ambiente meno binario sulle differenze, un ambiente più inclusivo, un ambiente molto più aperto alle differenze.
Ascoltando la canzone di Lucio Corsi, ammetto di aver avuto i brividi: l’ho sentita, mi è arrivata, parlava di me. Già l’apertura della canzone è un manifesto: “Volevo essere un duro | Che non gli importa del futuro | Un robot”. Notiamo subito come ci sia la voglia di non essere emotivo, di essere distaccato, di non essere sensibile. Quello che volevo essere io alle superiori. Poi più avanti, un’altra parte bellissima, recita: “Non sono nato con la faccia da duro | Ho anche paura del buio | Se faccio a botte le prendo”.
Semplice: i duri non hanno paura, figuriamoci del buio che per tutti è una cosa da bambini. I veri duri fanno a botte e non hanno paura, o se la hanno non la danno a vedere, non ammetterebbero mai che le prenderebbero.
Ricordo che quando ero alle superiori ero sempre terrorizzato di finire coinvolto in una rissa. Io le avrei prese di brutto, io non sono assolutamente in grado di picchiare, non la trovo una roba sensata. Ora che ci penso è una paura irrazionale, ma esiste ancora ora: se mi trovo di fronte a uno che vuole picchiarmi? Che faccio, mi fingo morto? Io non sono mica un duro.
Poi continua con “Quanto è duro il mondo | Per quelli normali”. Quelli normali. Quanto siamo disabituati alla normalità? Vogliamo solo performance, persone che primeggiano, persone sempre eccezionali. La normalità non ci piace, dobbiamo essere tutti fenomeni.
Conclusioni
La canzone si chiude con le parole “Non sono altro che Lucio”, che forse sono le più belle di tutta la canzone. Forse avrei voluto avere questa consapevolezza quando bramavo di essere un duro come gli altri: non sono altro che Fabrizio.
Non siamo altro che noi stessi. Non siamo altro che le nostre peculiarità senza dover tendere a emulare nessuno. Senza dover per forza essere dei duri.
Non esiste il binarismo sfigato e duro, secchioni e casinisti, sensibili e robot. Esistiamo noi con le nostre specificità, senza modelli preimpostati, senza modelli da imitare. Siamo nient’altro che noi. Solo noi, senza per forza essere dei duri.